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La lingua perduta delle gru

Non riusciva a darle un nome. La sua angoscia cresceva al pun­to da costringerlo a fuggire negli spazi aperti della città, dove, se non la sicurezza, trovava perlomeno la compagnia di altri estranei spaventati. C'era una fratellanza di uomini di mezza età che vagavano nei pomeriggi della domenica, guardandosi l'un l'altro gravemente al di là della strada, senza mai fare un cenno col capo. Sgattaiolavano accanto a Owen sul marciapie­de, mentre le spalle dei loro impermeabili si sfioravano. Emer­gevano al crepuscolo da uffici vuoti e fermavano i taxi. Tutti quanti portavano cappelli inclinati sul viso, gli occhi bassi sug­gerivano segreti. Tutti quanti avevano segreti. E tuttavia alme­no Owen incominciava a essere stanco del suo. Sì, se qualcuno glielo avesse chiesto adesso, chiunque, avrebbe raccontato tut­to, anche se ormai non gli avrebbe fatto alcun bene; lo avrebbe fatto per disprezzo. Ma nessuno glielo chiedeva. Persino Rose non sembrava sospettare niente di lui…


David Leavitt - La lingua perduta delle gru
«I miei genitori sono gente aperta. Non resteranno annientati dalla notizia» pensa Philip Benjamin, il protagonista di questo romanzo nel momento in cui, a venticinque anni, si appresta a rivelare alla famiglia la propria omosessualità. 
Eppure per Rose e Owen, piccoli intellettuali nella sfavillante New York degli anni Ottanta, la scoperta delle inclinazioni amorose del figlio apre una crepa dapprima sottile, poi sempre più profonda e insanabile, nel delicato equilibrio affettivo familiare, costringendoli a fare i conti con la propria più intima natura, le proprie scelte, le proprie responsabilità. 
Ma in questo paesaggio familiare desolato, in questo sfacelo di relazioni personali, Philip, e non solo lui, saprà individuare la strada per la costruzione di una vita sentimentale flessibile, 
realistica, libera, ma saldamente ancorata all'autenticità e alla sincerità.


Leggi un brano

Andò al Bijou, un cinema sulla Terza Avenue. La donna die­tro al tramezzo di vetro prese i suoi soldi, lo fece passare attra­verso il torchietto come aveva fatto praticamente ogni dome­nica per quindici anni. Per molto tempo questo posto lo aveva terrorizzato, ma ora lo stancava soltanto. Si sedette nell'ultima fila con gli altri vecchi che volevano spararsi una sega ed esser lasciati in pace. Stranamente, proprio mentre il suo apparta­mento, quel paradiso di pace e sicurezza, si era riempito ultima­mente di pericolo, questo posto aveva perso la sua minacciosità. Era come se riuscisse a vederlo con le luci accese, cosa che non succedeva mai, e non era altro che una stanza con un sac­co di poltrone macchiate al punto che non si poteva dare più un nome al loro colore originale. Niente stava in agguato qui. Non c'era mistero. Solo l'arrapamento crescente e collettivo di migliaia di uomini, iniziati e veterani, che deglutivano e anna­spavano e stringevano la presa in tandem con le presenze sul­lo schermo gigante.
Owen sedeva nell'ultima fila. Sullo schermo c'era un primo piano della faccia contratta dal piacere di un ragazzo mentre il liquido bianco gli scivolava giù per le guance, indugiando sul­la punta delle sue ciglia come neve, cadendogli sulla lingua dardeggianti A Owen parve che stesse trasformandosi nell'al­bero di una foresta invernale. Owen si concentrò. Doveva fati­care per essere eccitato da queste immagini. In realtà, era così assorto che si accorse a malapena quando qualcuno si sedette accanto a lui. Si girò una volta, poi tornò a guardare lo scher­mo. L'uomo sembrava sulla trentina, con capelli castani, baffi, piccoli occhiali di tartaruga che incorniciavano occhi chiari. In­dossava un gilet marrone. Stava fissando Owen intensamente. Owen ricambiò lo sguardo, poi fissò risolutamente lo schermo. Sullo schermo il ragazzo veniva incatenato a una staccionata di metallo da un piedipiatti mentre un altro gli tirava giù i panta­loni e si toglieva, accarezzava e massaggiava una grossa cintu­ra. Owen tuttavia continuò a sentire lo sguardo fisso dell'uomo accanto a lui, caldo come il fiato.
Chiuse gli occhi. Gli faceva rabbia che questa occasione si pre­sentasse adesso, proprio quando più di ogni altra cosa deside­rava restare solo a crogiolarsi nella sua disgrazia. C'era tempo? Non era troppo esausto? Ce l'avrebbe fatta a farsi venire un'ere­zione? Vecchie domande si risvegliavano in lui. Erano mesi che non faceva niente del genere. Ed era così stanco.
Sospirò forte. Come per caso, appoggiò la mano sulla coscia dell'uomo. Con gli occhi fissi sullo schermo, si fece strada a ten­toni lungo i jeans fino al caldo rigonfiamento dell'inguine e si fermò lì ad armeggiare.
Il respiro dell'uomo era profondo e irregolare. La sua mano era sulla gamba di Owen. E adesso Owen tirò giù lentamente la cerniera, sentì la cosa scattare come un'ondata di calore, pulsare contro il cotone sottile e caldo della biancheria intima dell'uomo. Continuò a guardare lo schermo mentre il ragazzo, benché pro­testasse, veniva preso ancora una volta dal piedipiatti, e ancora una volta ne godeva. L'uomo stava soffiando fuoco sulla spalla di Owen. Cautamente Owen si piegò verso di lui, e un braccio gli impedì di piegarsi sul bracciolo. Owen guardò verso l'uomo, o verso la sua faccia: era una faccia gentile, pura, preoccupata. «Per favore» sussurrò l'uomo. «Non posso farlo qui. Per favo­re, non possiamo andare da qualche altra parte?»
La mano di Owen si sollevò spasmodicamente. Guardò lo schermo come alla ricerca di una guida. Sullo schermo il piedi­piatti disse: «Sì, merda, sì».
L'uomo voleva andare da qualche altra parte. Sedeva ripie­gato sulla poltrona, con la patta aperta, con un'erezione che fa­ceva tenda sotto le mutande. Guardò Owen. «Ho una casa qui vicino; potremmo andare lì» disse, e Owen aprì la bocca e guar­dò dall'altra parte. Immaginò di dire di sì, immaginò che avreb­bero dovuto parlare fuori del cinema, scambiarsi i nomi, forse stringersi la mano; avrebbero dovuto parlare dei loro lavori e delle loro vite mentre si incamminavano ovunque stessero an­dando (cosa avrebbe potuto dire?); peggio ancora, avrebbero do­vuto ammettere a vicenda alla chiara luce del giorno che erano venuti, ciascuno da solo, in quel locale scuro della Terza Avenue, quel ricettacolo di vergogna e di piacere solitario, e pertan­to riconoscersi vicendevolmente come esseri umani e non più come semplici ombre che fluttuano e scimmiottano, momento per momento, i movimenti guizzanti di giganti su uno scher­mo. Owen sapeva come toccare; con le mani poteva essere dol­ce, focoso, seducente. Ma nei quindici anni di frequentazione di questo locale non aveva mai detto una parola a nessuno dei suoi partner; non aveva idea da dove cominciare.
Scosse la testa. L'uomo si agitò nervosamente; Owen non lo guardò. «Grazie» disse l'uomo. «Sarà per un'altra volta.» In un attimo era sparito. Owen tutt'a un tratto pensò di alzarsi e di se­guirlo, ma sembrava essersi congelato nella poltrona. Si lasciò andare all'indietro, sgonfiato. Nel giro di poche ore il suo desi­derio di fare all'amore con quell'uomo, di stringere quell'uomo, sarebbe divenuto così acuto da essere praticamente insopporta­bile. Sdraiato a letto avrebbe ricordato ogni piccolo tocco, e alla fine avrebbe dovuto alzarsi, aprire la doccia, appoggiarsi contro la parete e sentire l'acqua calda inumidirgli la pelle. Il giorno dopo in lui sarebbe rimasta solo la speranza sufficiente a provare rim­pianto. La sera, tutto sarebbe stato morto; morto di fame.
Si tirò su la cerniera, si strinse forte il cappotto in vita si alzò. A casa, lo sapeva, c'era il dolce; c'era sempre il dolce. C'erano i libri, anche. Faceva freddo fuori, quindi dentro sarebbe stato cal­do. La casa lo avrebbe sostenuto per una singola notte e, quan­do il panico fosse comparso la mattina dopo, lui sarebbe stato in cammino verso il lavoro. La sopravvivenza era possibile.
Notò una piccola macchia bianca sul sedile accanto al suo. Era un pezzo di carta. Lo guardò per qualche secondo prima di prenderlo e aprirlo. Sul pezzo di carta c'era scritto in una calli­grafia minuta: "Alex Melchor". Poi due numeri di telefono, se­guiti da una "U" e l'altro da una "A" e sotto, sottolineato due volte: "Per favore telefonami".
Owen rilesse il biglietto. Girò lo sguardo intorno a sé, ver­so le ombre nel locale. Guardò le proprie mani, il sedile vuo­to, lo schermo.
Poi ripiegò il pezzo di carta e se lo ficcò in tasca dirigendo­si verso l'uscita.
Fuori, il vento era forte e la neve cadeva nell'oscurità. Owen camminò rapidamente, con le mani in tasca, le punte dei piedi intorpidite, osservando il suo fiato formare nuvole sempre più grandi e più frequenti. Pensò ai suoi libri, alla torta nel frigori­fero, e sorrise. Quell'uomo nel cinema, coi capelli castani e gli occhi chiari, Alex Melchor, aveva lasciato il suo numero di tele­fono. Voleva rivedere Owen. Voleva Owen. E pensando all'uo­mo, Owen camminò più in fretta, mentre le pulsazioni nelle sue vene acceleravano. Poi giurò di aver sentito il proprio cuore scoppiargli in petto. E fu come se un dolce liquido d'ambrosia si riversasse da quel vaso rotto, per scorrergli nelle vene, riem­piendolo e riscaldandolo, dal centro del suo petto fino alle fred­de, lontane estremità.




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