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domenica 17 marzo 2013

Papà,martedì è la tua festa. E io sono gay


Rob Portman era un leone della destra america conservatrice e non perdeva mai occasione per ruggire contro i matrimoni omosessuali e in generale contro i diritti dei gay. Finchè una sera, suo figlio...

Ascolta questa vicenda raccontata da Gramellini a "Che tempo che fa"

"La vita deve avere un debole per noi, cretini potenziali, perchè ci manda ogni tanto dei segnali. Li manda con la posta più rapida. Quella che arriva al cuore"

"Il problema non è chi cambia opinione, ma chi la cambia in malafede. Quelli che mi piacciono ancora meno sono quelli che non cambiano mai opinione, per paura di divorziare da un pregiudizio"

"Rob Portman e il figlio coraggioso" - dal The New Yorker

sabato 13 ottobre 2012

Pugni ai pregiudizi


Stupito stamattina, quando in edicola a comprare la Gazzetta dello Sport, ho trovato sulla copertina del magazine SW - Sport Week, la foto del pugile Orland Cruz  e la grossa scritta, in testa alla pagina, SONO GAY. PROBLEMI?

Non sono argomenti che ti aspetti dalla Gazzetta, perlomeno sai che se per grazia ci dovesse essere un articolo su questi temi (e in realtà ogni tanto questa attenzione c'è - vedi link) te lo puoi trovare all'interno del giornale non in prima pagina.
E mi piace immaginare che chi oggi si troverà in mano la rivista, in genere lettori più avvezzi al calcio-scommesse che alle rivendicazioni LGBT, un pensiero o una domanda nuova se la possa portare a casa.
Si, perchè la copertina è efficace: la foto a tutta pagina è quella di un pugile, sudaticcio e con guantoni in pugno, maschile ma non incazzato col mondo,anzi sorridente. Un sorriso convinto, fiero e maschio.

Vi riporto l'intervista che si trova all'interno del magazine e vi consiglio di procurarne una copia per un altro articolo di spalla a questo, dal titolo "Ma quanto è difficile fare coming out"

IO CHE AMO GLI UOMINI E LA BOXE
NON NE POTEVA PIU' DI NASCONDERSI. NON HA PAURA DEL GIUDIZIO ALTRUI, PERCHE' HA UNA FAMIGLIA CHE LO SOSTIENE E NEL SUO SPORT SI SENTE UN FENOMENO. COSI', ALLA FINE IL PUGILE PORTORICANO LO HA DETTO: "SONO GAY, E ALLORA?"


Per il popolo di Puerto Rico, il pugile Orlando Cruz sino all'altro giorno era semplicemente "El Fenomeno". Adesso questo ragazzo di 31 anni dal fisico scultoreo tutto tatuato ma dalla voce molto delicata per tutti è il primo pugile professionista ad avere annunciato pubblicamente di essere gay. «So di avere stupito il mondo intero con il mio coming out», racconta prima di infilarsi i guantoni e cominciare ad allenarsi sul ring della sua palestra nel quartiere Parcelas Falù della capitale San Juan, in vista della difesa della corona latina Wbo, il 19 ottobre contro il messicano Jorge Pazos, «però non avevo altra scelta, ero stanco di spacciarmi per quello che non sono. Sì, la boxe è uno sport per machos però io, anche se gay, sono un uomo e un pugile come gli altri. E adesso pretendo anche maggiore rispetto».

Quando ha iniziato a tirare di boxe lo ha fatto per sentirsi più forte e sicuro?

«A 7 anni, nelle strade di San Juan de Puerto Rico, facevo a botte tutti i giorni, dovevo difendermi».

Difendersi da cosa? La offendevano perché era un po' effeminato?

«Guardi questi muscoli e questo corpo, le sembrano quello di una femmina? La strada è stata una scuola, anche se io avrei preferito sfondare nel calcio».

Giocava sul serio o soltanto per divertimento? E in quale ruolo?

«Ero il numero dieci dell'Academia Quintana, giocavo molto bene, avevo pieni fini e grande fantasia. Il mio idolo era Ale Del Piero, anche se la mia squadra del cuore è da sempre il Barcellona».

Adesso Del Piero gioca a Sydney, in Australia

«Io in Australia ho incontrato Muhammad Ali, il mio idolo, è per lui che ho deciso di fare il boxeur. Quando lo vidi, scoppiai a piangere, lo ringraziai di quanto aveva dato al pugilato, tremavano le mani più a me che a lui malato di Parkinson».

Muhammad Ali sarebbe stato fiero del suo coming out. Ha sempre lottato per la difesa dei diritti delle persone considerate più deboli dalla società...

«Forse sì. ma non lo sapremo mai. A me basta che sia fiera di me mia madre Dominga. Dietro l'orecchio destro ho tatuato l'iniziale del suo nome in caratteri cinesi. Sull'avambraccio invece l'aquila, simbolo del coraggio».



Lei lo ha avuto di certo nel fare coming out. Sua madre che cosa le ha detto?

«Lei e i miei cinque fratelli sapevano già che sono gay, così come i miei amici. Tutti loro mi hanno sostenuto nella mia decisione di parlare, si rendevano conto che non ce la facevo più a fingere, a nascondere i miei gusti sessuali, a continuare a essere ipocrita di fronte a tutto il popolo portoricano: io sono fiero di essere un omosessuale».

Però per pochi mesi era scappato a vivere nel New Jersey...

«Avevo bisogno di stare un po' lontano proprio per riflettere sull'opportunità di uscire allo scoperto, e volevo imparare bene l'inglese per la mia carriera».

Non teme ora di venire schernito dagli altri pugili? La boxe è un mondo mascolino, un avversario potrebbe apostrofarla con quegli epiteti poco gentili che a volte vengono stupidamente rivolti agli omosessuali...

«Finora gli altri pugili si sono complimentati con me. Se mi daranno del maricon (omosessuale; ndr) sul ring, beh, sarà più facile reagire e avrò una ragione in più per stenderli al tappeto».


Pensa che diventerà un esempio?

«Io invito tutti gli altri sportivi professionisti a farsi avanti, possiamo essere un modello per tutti quei ragazzi che subiscono episodi di bullismo a causa delle loro preferenze sessuali. Siamo nel 2012, è giunto il tempo che una persona sia apprezzata e amata per le sue qualità umane, capacità professionali o sportive, l'amore per la patria, indipendentemente dal fatto che sia etero, bisessuale, omosessuale».

Il cantante Ricky Martin, suo connazionale, che fece coming out nel 2010, si è complimentato con lei.

«Mi ha fatto molto piacere. Che bello se anche Tiziano Ferro si mettesse in contatto con me, adoro le sue canzoni, specialmente "Imbranato" (inizia a cantarla). Anche se il mio idolo musicale è Laura Pausini».

Lei ha un fidanzato, adesso?

«La mia metà adesso è la corona del titolo mondiale, voglio quella cintura intorno al torace, la voglio per mio padre che forse è stato la persona più scossa dal mio annuncio. Come ogni uomo centro americano desiderava un figlio che fosse tutto sangue del suo sangue, ma dovrà farsene una ragione».



E i suoi tifosi a Puerto Rico, un paese profondamente cattolico, le staranno vicino oppure teme che, soprattutto in caso di sconfitta, la potrebbero abbandonare?

«Io sono cattolico, rispetto anche se non condivido quel che pensano la Chiesa e il Papa sui gay, però non posso farci nulla. Sono omosessuale e faccio il pugile. Uno dei comandamenti, comunque, dice di non mentire... Puerto Rico mi ha sempre amato, dandomi il soprannome di El Fenomeno poiché a tirare di boxe, con la mia potenza e velocità dei pugni, sono un fenomeno: perché dovrebbe tradirmi?».



Ci sono altri gay nel pugilato? Li ha mai incontrati? Oppure nel villaggio olimpico? Lei ha partecipato ai Giochi di Sydney nel 2000.

«Sicuramente sì, anche se magari nel pugilato, essendo uno sport molto macho, sono meno rispetto ad altre discipline. C'è molta codardia nella società contemporanea, figuriamoci nello sport. Come si fa a discriminare, emarginare, insultare una persona per i suoi orientamenti sessuali? Il mondo deve evolversi, è tempo di farlo. E io col mio piccolo gesto credo di aver dato un contributo importante».

Lei, da quando ha fatto coming out, viene intervistato dalle televisioni di tutto il mondo. Non è che con questo annuncio si è fatto anche tanta pubblicità? E le arriveranno lucrosi contratti?

«Io semplicemente non ce la facevo più a nascondermi, non potevo guardarmi allo specchio senza sentirmi male e poi qualcuno probabilmente si era accorto delle mie preferenze sessuali. Tutta questa pubblicità può fare solo bene agli omosessuali di tutto il mondo e anche agli etero: lo ripeto, il mondo apra i propri cuori e la propria mente».

È vero che ha la passione per la moda italiana?

«Adoro gli abiti di Dolce &Gabbana, Armani e Valentino, per loro sfilerei tanto volentieri. Anche perché vorrebbe dire venire in Italia, fare un viaggio alla scoperta delle vostre bellezze artistiche. Un altro tabù da sfatare, infatti, è che i pugili nati in strada come me siano ignoranti».

Le è mai successo di innamorarsi di uno sportivo?

«Io preferisco gli attori come Tom Cruise. Però le assicuro che per un pugile gay è difficilissimo innamorarsi, uscire a cena, avere una relazione con un uomo comune. Non voglio nascondermi nei bar di periferia, in appartamenti di cittadine lontane. Voglio amare e tirare di boxe: io amo gli uomini e il pugilato. Dove sta la contraddizione?».


[di Luca Bergamin]
SW- Sport Week n° 609 - 13 ottobre 2012

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Aggiornamento del 27 ottobre 2012

Cruz batte ai punti, in 12 riprese, il messicano Jorge Pazos e si conferma detentore della corona latina dei pesi piuma versione WBO.

Sportweek gli dedica un altro servizio corredato di fotografie del combattimento!
(Sw - Sport Week n° 611 del 27 ottobre 2012)

martedì 9 ottobre 2012

Chi frequenti?


La mia vita da single di mezza età è solo parzialmente una vita socialmente attiva.
Ok, ammettiamolo che da 40enni è più difficile ritrovarsi con gli amici, passare del tempo insieme, andare al pub o al ristorante quando tutti, o almeno la maggioranza dei tuoi coetanei, si misurano con i tempi e le esigenze di una famiglia o di un divorzio e i figli più o meno piccoli.
Però, un salto al cinema, il ritrovo a cena da qualcuno o la serata in pizzeria ogni tanto ci stanno, così pure come la visita ad una mostra o più raramente un concerto, una partita di rugby, uno spettacolo a teatro.
L. è un po' disturbato da questa mia socialità. Chiariamoci: disturbo è una parola esagerata (e inappropriata) e il problema non è che io viva una vita "altra" fuori da lui. Il problema, se problema è, sta nel fatto che io, secondo lui, frequento troppi etero mentre lui se ne sta molto più in disparte. Lui come altri. 

Mi confrontavo con un gay, non dichiarato come me, lettore assiduo del blog (non diamo indicazioni ulteriori per il rispetto della sua privacy).
Mi raccontava di come poco alla volta la sua vita si era limitata al binomio casa-lavoro;
poco alla volta aveva lasciato le vite dei suoi amici a trascorrere senza di lui;
senza rotture si era comunque messo poco alla volta in disparte.
Son quelle cose che non capitano da un giorno all'altro ma disegnano la tua vita, appunto, poco alla volta.
L'età, certo, e quella storia che tutti ormai si son fatti la loro strada ma, soprattutto, il disagio di misurarsi a raccontare la propria omosessualità: mentire non gli pare più la soluzione, glissare l'argomento forse -come faccio io e come fanno le migliaia di inthecloset, quelli perlomeno che non negano spudoratamente inscenando una finta omofobia-, ma anche evitare l'argomento diventa una fatica per lui. Meglio a questo punto tirarsi da parte.

E' l'esperienza di molti, gay ma non solo. Isolarsi è la conclusione di chi fatica a vivere con serenità la propria identità.
E' vero, si può sempre vivere, fare, incontrare, sorridere, relazionarsi, senza dover condividere tutta  la propria interezza, ma mi rendo ben conto che nella pienezza di vita l'identità personale passa anche (forse soprattutto) attraverso l'identità affettiva. E se questa la devi per qualche motivo celare ti trovi quasi senza argomenti e senza voglia di metterti in relazione con gli altri.

Questo lettore mi racconta che per lui leggere il blog o interagire via e-mail con altre persone conosciute qui, è una boccata di ossigeno. Il suo bisogno ora, bisogno di amicizie, deve assolutamente passare attraverso amicizie gay. Solo con i gay si sente a proprio agio. Solo con loro può sentirsi rilassato. Dichiarato o no, con altri omosessuali sente di poter avere uno scambio che non riesce ad avere con gli etero.
Molto comprensibile, direi naturale, ma riflettevo con lui se questo atteggiamento non rischia di diventare col tempo (uso un parolone) "ghettizzante".

Però mi rendo conto che va naturalmente così.
Le persone che frequentiamo, di cui ci circondiamo, sono quelle con le quali stiamo bene e che condividono con noi comunanza di pensieri o di vissuto, con le quali possiamo sentirci liberi di esprimerci in completezza. E così va da sè che da bravi gay frequentiamo principalmente (o per alcuni esclusivamente) gay.

Ci si vede in giro, in ambienti gay, o gay friendly, solo tra gay con gay, locali gay, disco gay, spiagge gay. Ci puoi trovare qualche volta con qualche amica (si, le donne sono quelle che forse più facilmente accolgono la diversità nella cerchia di amici) oppure anche con quell'amico etero di sempre, che ti vuole bene e ti frequenta ma sempre e solo in compagnia della fidanzata o mogliettina, che "accompagnarsi da solo con un gay poi gli altri possono pensare male". Ma non è solo la faccenda di un mondo che tenderebbe a lasciarti in disparte, è spesso una scelta di natura proprio più personale, perchè più... "easy".


Strano come anche la liberazione con un coming out anzichè aprirti completamente nella più ampia socialità abbia per certi versi un effetto escludente (sto generalizzando, semplificando, banalizzando, ok... giusto per rendere più semplice il concetto).
Mi viene in mente anche la considerazione fatta mesi fa da Grant nel post "L'orso": "Col coming out, a volte, non si diventa sé stessi, ma si cessa di essere sé stessi."
(Grant, ti avevo promesso un post che nascesse da questa tua considerazione. Eccolo).

O ancora, come è capitato a tutti quei gay di provincia che conosco e che si sono liberati del loro armadio che, per poter essere sereni, hanno dovuto necessariamente tagliare i ponti con la propria realtà di provenienza. Ma questa è un'altra storia e forse ne parlerò un'altra volta.

domenica 23 settembre 2012

Quella cosa sui froci che i piloni capiscono

"Gay? Non è stato e non sarà mai un problema. "

Anche i non appassionati di rugby si sono imbattuti in questi anni nella figura di questo uomo, mezzo orso di stazza e mezzo leone di criniera che è considerato tra i migliori PILONI al mondo: Martin Castrogiovanni.

Perlomeno l'avrete visto durante l'estate quando ci veniva proposto in uno spot come colui che voleva partecipare alle olimpiadi (il rugby non è sport olimpico) infilandosi nei vari sport ma non gli riusciva.

Il pilone è colui che regge la mischia, giocatore di fisico possente, testa d'ariete della squadra, colui che  è chiamato ad effettuare il lavoro sporco.
Come simpaticamente raccontano quelli del Rugby Lainate
…si tratta di quegli individui grossi, tozzi e pelosi, a metà tra un mostro sanguinario e un nano da giardino, che si alzano per ultimi da una mischia rovinosa e che, malgrado tutto, vanno per primi al bar. L’occupazione principale dei piloni, giocando essi in prima linea, è quello di azzuffarsi in coloriti modi con i loro dirimpettai della squadra avversaria durante le mischie: prese per la gola, morsi agli orecchi, dita negli occhi sono tra le pratiche più gettonate; mentre il pilone destro è incastrato tra il proprio compagno tallonatore e il suo omologo avversario, il pilone sinistro tiene la faccia fuori dalla mischia, quindi è generalmente ignaro che il rugby è uno sport che si gioca con la palla. Normalmente i piloni grugniscono felicemente durante la partita nel buio della mischia, sperando di poter fornire qualche palla decente agli esterni.

Sempre in tono scherzoso nel rugby si dice che per fare il pilone non sia necessaria l'intelligenza...
Pensa te cosa ti vai ad immaginare quindi sul nostro Martin.

Invece Castro te lo ritrovi così: ironico
tenero

e tutt'altro che stupido.

Intervistato qualche giorno fa da Cristina Parodi e interrogato sul tema "gay", poco prima trattato in trasmissione con altri ospiti, Martin Castrogiovanni interviene così:

“Si sapeva di Gareth Thomas [qui il suo coming out] nell’ambiente. 
Ma non cambia nulla. 
Ognuno può fare quello che vuole della propria vita. 
Vengono accettati tutti nel rugby. E’ questo il bello di questo sport. 
C’è anche un arbitro che ha fatto coming out molto prima di Thomas. 
Ma non è stato e non sarà mai un problema. 
Lui è stato un grande giocatore, capitano del Galles, ma ci vuol più coraggio a fare coming out che a star lì nella mischia“.
Gareth Thomas, dopo il coming out, nella copertina del gay-magazine Attitude

Si sapeva nell'ambiente... dice Castrogiovanni. Immaginate giocatori impauriti sotto le docce? In imbarazzo? Intimoriti dal cadere di una saponetta? Incapaci di riconoscere l'autorità del capitano gayo?
Nulla di tutto ciò, vedete?

A dispetto delle imbarazzanti dichiarazioni estive dei calciatori della nazionale, ricordate le parole di Cassano: "Gay in Nazionale? Speriamo di no! Son froci, problemi loro![rivedi il video della dichiarazione]" ?

Verrebbe da dire che se ci arrivano pure i piloni, carissimi amici della palla rotonda, com'è che voi fate invece così fatica?
Ma vorrete riscattarvi, vero?

martedì 17 luglio 2012

Quelli che il coming out


Quelli che quando han fatto fanno coming out ormai lo sapevano anche i gerani sul balcone della zia,


quelli che non hanno ancora capito la differenza tra outing e coming out,

quelli che basta il coming out per risolvere tutti i tuoi problemi, anche i brufoli,

quelli che buttarsi nel coming out gli fa troppo paura ma fanno bungee-jumping nel week-end

quelli che ora che ho fatto coming out il gruppo dei froci mi vorrà con se

quelli che fanno coming out perchè fanno tutte le cose in inglese

quelli che fanno coming out anche se non hanno ancora capito se proprio proprio sono gay

quelli che col coming out la vita è più leggera

quelli che col coming out gli migliora la salute

quelli che chi me l'ha fatto fare di fare coming out

quelli che il coming out lo fanno proprio con tutti, anche con il bidello della scuola elementare

quelli che si arrabbiano se non fai coming out e per ripicca ti fanno outing

quelli che non fanno coming out neppure quando la moglie ti trova tra le chiappe del suo amico, "cara, non è come pensi tu"

quelli che coming out significa "venire fuori" e allora ti schizzano sull'addome,

quelli che piuttosto di far coming out si rovinano la vita

quelli che il coming out gli ha rovinato la vita

quelli che fanno coming out ma non ti diranno mai per chi votano

quelli che fanno coming out e ci rimangono male a chi gli risponde che lo sapeva già

quelli che il coming out è finalmente il paradiso

quelli che ho deciso, faccio coming out... domani però

quelli che il coming out avrei dovuto farlo ieri, ora no, proprio no

quelli che far coming out ci provano tutti i giorni

quelli che al coming out non ci han proprio mai pensato

quelli che col coming out trovano nuovi amici 

quelli che col coming out perdono gli amici

quelli che col coming out gli amici dicono, scherzi? non è un problema!... poi lentamente quegli amici spariscono

quelli che fanno coming out perchè non hanno più scelta

quelli che non fanno coming out perchè non hanno mai avuto scelta

quelli che sono sereni, indipendentemente dal coming out

quelli che non sono sereni, nonostante il coming out

quelli che fan coming out perchè l'ha fatto anche Tiziano Ferro

quelli che non fanno coming out perchè l'ha fatto Cecchi Paone

quelli che faranno coming out quando lo farà Formigoni...


...a tutti "quelli che il coming out": 
siate sereni e siate felici
e fate sempre come vi pare!

martedì 10 aprile 2012

Talenti (in)nati

In ognuno di noi c'è un talento che aspetta di essere tirato fuori.
Quando scopri dentro di te ciò che riempie la tua vita non puoi più far finta di niente. Scatta una voglia di ribellione, una sete di realizzazione e il tuo corpo è tutto lì, la tua mente continuamente proiettata a quel desiderio che ti consuma, come una febbre, come un amore che non riesci a raggiungere.
Quando ti accorgi che per essere vivo hai bisogno di esprimere tutto te stesso, ogni resistenza che ti poni o che ti viene posta non è solo un ostacolo ma un morire dentro. In quel bisogno di essere, di respirare, di essere autentico, hai la sola necessità di presentarti senza filtri, metterti a nudo.
Rudolf Nureyev fotografato da Richard Avedon


Ripensavo a queste cose riguardandomi il film Billy Elliot, secondo me un film che è una metafora totale sul coming-out: la scoperta di se, delle proprie inclinazioni, il volerselo nascondere, praticare di nascosto, scontrarsi col giudizio della gente, con le incomprensioni della famiglia fino a che ci si rende conto che non viversi per come si è è come soffocare.
Ebbene, tutte le volte ci casco e mi immedesimo in quel ragazzino e rivedo in quel padre mio padre. Piango. Come un cretino, lo ammetto, piango. Ogni benedetta volta.
Quella forza nel sangue di Billy, le fatiche del padre son sempre lì a provocarmi e a mettermi il nodo alla gola.
Mi chiedo perchè, quando a 20 anni ho esercitato una forte ribellione in famiglia per portare avanti una scelta che andava controcorrente, quando, testardo all'inverosimile, ho avuto il coraggio per mettermi a nudo, quella cocciutaggine per voler essere IO, non ho avuto però il coraggio per il mio coming out. Solo quello forse, in quel momento, avrebbe risolto l'incompletezza che mi abitava.
Ma a 20 anni ancora non sapevo, anzi non volevo sapere di essere gay. Non avrei potuto nemmeno gridarlo durante un'incazzatura, perchè anche se percepivo già tutto, portavo in me una grossa confusione. La mia sessualità non mi era del tutto chiara (il fatto che mi attraessero pure le donne era rassicurante da un lato e mi creava confusione dall'altro) e da solo esercitavo su di me una grossa autocensura.

Vi ripropongo qui la scena in cui Billy si interroga sui primi sentimenti che prova con il suo amico e dove si ribella pubblicamente al padre con il coming-out sul suo voler essere, a tutti i costi, un ballerino.
Si, uso esattamente il termine coming-out, anche se non riguarda una dichiarazione di omosessualità, perchè il coraggio per venire allo scoperto appartiene a tutti quei desideri di cui ci vergognamo e per i quali ci castriamo.

Come Billy, sempre in tema di danzatori, vi lascio a questa lettera di Rudolf Nureyev. La potete leggere o ascoltare più sotto, in una riduzione magnificamente letta da Milena Vucotic. E' piena di passione, di fatiche ma soprattutto piena di ricerca del proprio posto in questo mondo. Trovare il proprio posto, la propria autenticità, il proprio senso: è come respirare.

"Era l’odore della mia pelle che cambiava, era prepararsi prima della lezione, era fuggire da scuola e dopo aver lavorato nei campi con mio padre perché eravamo dieci fratelli, fare quei due chilometri a piedi per raggiungere la scuola di danza. Non avrei mai fatto il ballerino, non potevo permettermi questo sogno, ma ero lì, con le mie scarpe consunte ai piedi, con il mio corpo che si apriva alla musica, con il respiro che mi rendeva sopra le nuvole. Era il senso che davo al mio essere, era stare lì e rendere i miei muscoli parole e poesia, era il vento tra le mie braccia, erano gli altri ragazzi come me che erano lì e forse non avrebbero fatto i ballerini, ma ci scambiavamo il sudore, i silenzi, a fatica. Per tredici anni ho studiato e lavorato, niente audizioni, niente, perché servivano le mie braccia per lavorare nei campi. Ma a me non interessava: io imparavo a danzare e danzavo perché mi era impossibile non farlo, mi era impossibile pensare di essere altrove, di non sentire la terra che si trasformava sotto le mie piante dei piedi, impossibile non perdermi nella musica, impossibile non usare i miei occhi per guardare allo specchio, per provare passi nuovi. Ogni giorno mi alzavo con il pensiero del momento in cui avrei messo i piedi dentro le scarpette e facevo tutto pregustando quel momento. E quando ero lì, con l’odore di canfora, legno, calzamaglie, ero un’aquila sul tetto del mondo, ero il poeta tra i poeti, ero ovunque ed ero ogni cosa. Ricordo una ballerina Elèna Vadislowa, famiglia ricca, ben curata, bellissima. Desiderava ballare quanto me, ma più tardi capii che non era così. Lei ballava per tutte le audizioni, per lo spettacolo di fine corso, per gli insegnanti che la guardavano, per rendere omaggio alla sua bellezza. Si preparò due anni per il concorso Djenko. Le aspettative erano tutte su di lei. Due anni in cui sacrificò parte della sua vita. Non vinse il concorso. Smise di ballare, per sempre. Non resse la sconfitta. Era questa la differenza tra me e lei. Io danzavo perché era il mio credo, il mio bisogno, le mie parole che non dicevo, la mia fatica, la mia povertà, il mio pianto. Io ballavo perché solo lì il mio essere abbatteva i limiti della mia condizione sociale, della mia timidezza, della mia vergogna. Io ballavo ed ero con l’universo tra le mani, e mentre ero a scuola, studiavo, aravo i campi alle sei del mattino, la mia mente sopportava perché era ubriaca del mio corpo che catturava l’aria. Ero povero, e sfilavano davanti a me ragazzi che si esibivano per concorsi, avevano abiti nuovi, facevano viaggi. Non ne soffrivo, la mia sofferenza sarebbe stata impedirmi di entrare nella sala e sentire il mio sudore uscire dai pori del viso. La mia sofferenza sarebbe stata non esserci, non essere lì, circondato da quella poesia che solo la sublimazione dell’arte può dare. Ero pittore, poeta, scultore. Il primo ballerino dello spettacolo di fine anno si fece male. Ero l’unico a sapere ogni mossa perché succhiavo, in silenzio ogni passo. Mi fecero indossare i suoi vestiti, nuovi, brillanti e mi dettero dopo tredici anni, la responsabilità di dimostrare. Nulla fu diverso in quegli attimi che danzai sul palco, ero come nella sala con i miei vestiti smessi. Ero e mi esibivo, ma era danzare che a me importava. Gli applausi mi raggiunsero lontani. Dietro le quinte, l’unica cosa che volevo era togliermi quella calzamaglia scomodissima, ma mi raggiunsero i complimenti di tutti e dovetti aspettare. Il mio sonno non fu diverso da quello delle altre notti. Avevo danzato e chi mi stava guardando era solo una nube lontana all’orizzonte. Da quel momento la mia vita cambiò, ma non la mia passione ed il mio bisogno di danzare. Continuavo ad aiutare mio padre nei campi anche se il mio nome era sulla bocca di tutti. Divenni uno degli astri più luminosi della danza. Ora so che dovrò morire, perché questa malattia non perdona, ed il mio corpo è intrappolato su una carrozzina, il sangue non circola, perdo di peso. Ma l’unica cosa che mi accompagna è la mia danza la mia libertà di essere. Sono qui, ma io danzo con la mente, volo oltre le mie parole ed il mio dolore. Io danzo il mio essere con la ricchezza che so di avere e che mi seguirà ovunque: quella di aver dato a me stesso la possibilità di esistere al di sopra della fatica e di aver imparato che se si prova stanchezza e fatica ballando, e se ci si siede per lo sforzo, se compatiamo i nostri piedi sanguinanti, se rincorriamo solo la meta e non comprendiamo il pieno ed unico piacere di muoverci, non comprendiamo la profonda essenza della vita, dove il significato è nel suo divenire e non nell’apparire. Ogni uomo dovrebbe danzare, per tutta la vita. Non essere ballerino, ma danzare. Chi non conoscerà mai il piacere di entrare in una sala con delle sbarre di legno e degli specchi, chi smette perché non ottiene risultati, chi ha sempre bisogno di stimoli per amare o vivere, non è entrato nella profondità della vita, ed abbandonerà ogni qualvolta la vita non gli regalerà ciò che lui desidera. È la legge dell’amore: si ama perché si sente il bisogno di farlo, non per ottenere qualcosa od essere ricambiati, altrimenti si è destinati all’infelicità. Io sto morendo, e ringrazio Dio per avermi dato un corpo per danzare cosicché io non sprecassi neanche un attimo del meraviglioso dono della vita… " RUDOLF NUREYEV

martedì 27 marzo 2012

Figli gay? C'è di peggio!

Cosa passa nella testa di un genitore quando viene a conoscenza dell'omosessualità dei propri figli? Quali reazioni? Quali pensieri?
C'è chi si dispera e prova dentro di se la vergogna chiedendosi "dove ho sbagliato?". C'è chi riconosce di averlo sempre saputo ma è preoccupato per paura delle discriminazioni che il figlio vivrà. C'è chi è tranquillo e riconosce che la cosa più importante sia la serenità del proprio figlio. C'è chi reagisce con rabbia e si sente tradito e allontana il figlio dalla propria vita. Chi invece assicura che niente potrà cambiare l'amore che prova per lui. Chi banalmente spera che almeno non lo sappiano i parenti e gli amici...
Sarebbe interessante conoscere, per chi ha fatto coming-out, la reazione dei vostri genitori. Penso che ogni storia sia particolare, ogni reazione davvero personale. Intanto vi lascio ad un brano dal libro "Eguali Amori" di Leavitt dove si racconta appunto come madre e padre vivono il lesbismo della figlia April e l'omosessualità del figlio Danny.


Riguardo all'omosessualità dei loro figli Louise e Nat mantenevano un atteggiamento di speranzosa rassegnazione. Le loro parole definitive sull'argomento sembravano essere: be', al mondo c'è anche di peggio. Ed era vero: Louise aveva delle amiche i cui figli erano eroinomani, o guerriglieri in Nicaragua, o - peggio ancora, infinitamente peggio - amiche i cui figli erano morti, troppi, a quanto pareva, morti in incidenti automobilistici, di overdose, o di strani cancri causati dai medicinali che le loro madri avevano innocentemente inghiottito nella loro giovinezza. Grazie a Dio lei non aveva preso il D.E.S., un farmaco antineoplastico, ma sua sorella Eleanor sì, e adesso Joanne, la figlia di Eleanor, ne soffriva le conseguenze: un'isterectomia a ventidue anni, la difficoltà di adottare bambini, e naturalmente la minaccia del cancro che le pendeva sulla testa, e avrebbe continuato a incombere fin quando non fosse stata rimpiazzata da qualche cosa di peggio o di meglio o quanto meno di più definibile: la realtà del cancro, che, come sapeva Louise, se non altro si portava appresso una specie di rassicurazione dovuta alla chiarezza: se non altro si sapeva che cosa si stava combattendo. Sul lungo periodo, Louise lo sapeva, era stata fortunata.


Decise d'ignorare gli articoli che Eleanor le spediva, ritagliati dalle oscure riviste di psicologia di Sid, sapendo che era soltanto l'invidia che induceva Eleanor a passarglieli: «La ricorrenza dell'omosessualità nei consanguinei: natura o educazione?» «Famiglie con più di un figlio omosessuale: una ricerca» «La sindrome del bambino-femminuccia e della bambina-maschiaccio: nuove testimonianze collegano il comportamento infantile allo stile di vita omosessuale». Erano sempre fotocopie ordinate, con un appunto su un foglietto di carta agganciato alla prima pagina, un appunto introdotto dalla fotografia di una cuoca felice che mescolava del cibo in una pentola e le parole: «Buone notizie dalla cucina di Eleanor Friedman». Ho pensato che potesse interessarti leggere questo articolo.. E., Sid ha pensato che poteva interessarti dare un'occhiata a questo... E.
Ma Louise aveva smesso ormai da lungo tempo di cercare di capire il complicato gergo degli articoli, o di seguire i grafici elaborati. Li infilava, senza leggerli, in uno schedario sotto la lettera O, e cercava di ricordare le tragedie della vita di Eleanor: la protesi e la gruccia, la figlia che non avrebbe mai avuto bambini, e il figlio di cui non aveva mai notizie, che lavorava in una fabbrica di scatolame in Alaska, con il cervello stonato come l'altoparlante di uno stereo che ha suonato a un volume eccessivo. Il figlio di Eleanor, Markie, aveva ucciso il
gatto: lo aveva messo in cuffia e aveva alzato il volume al massimo, poi aveva messo il gatto nella vasca da bagno, e infine nel forno a microonde; il tutto era il risultato di un brutto trip, come aveva detto Markie più tardi, quando lei e Sid erano tornati a casa. Doveva ricordarselo, pensava tra sé Louise quando arrivavano gli articoli con la posta: doveva ricordare che il gatto l'aveva trovato Eleanor, e più tardi aveva dovuto ripulire il forno.
Comunque, Louise non credeva veramente di avere due figli omosessuali. Non riusciva dei tutto ad accettare l'omosessualità di April. Si ricordava fin troppo bene quanto andasse pazza per i ragazzi nei primi anni di college. April si era innamorata appassionatamente di un ragazzo o di un altro fino a Joey Conway, il culmine della sua passione. E Louise sapeva che faceva sul serio, lo sapeva. Riconosceva dai tempi della sua giovinezza lo sguardo folle negli occhi della figlia, quello sguardo da cui era chiaro che avrebbe fatto qualsiasi cosa per quest'uomo, qualsiasi cosa per tenerselo. Per quel che ne sapeva Louise, l'omosessualità di April era più che altro una posa politica, una fase che stava attraversando, che aveva più a che fare con il femminismo che con il desiderio vero e proprio. (Sceglieva però di ignorare il fatto che questa "fase" ormai durava da dieci anni.)




Danny era un'altra storia; con Danny sembrava che non ci fosse scampo. Louise lo aveva capito molto presto, non tanto da sintomi convenzionali - Danny non si metteva i suoi vestiti né giocava con le bambole o niente del genere - ma dal fatto che tendeva a opporsi a certe attività, agli sport o a guardare le partite di football o a lavorare in giardino con suo padre, e preferiva invece starsene in cucina con Louise, a chiacchierare con lei mentre cucinava, o seduto nella sua stanza a ritagliare fotografie di paesaggi dalle riviste per incollarle su un quaderno che aveva già riempito con disegni psichedelici a pennarello. Louise sorrideva ripensando a queste cose, e comunque, se non altro lui era al sicuro, non stava battendo i quartieri bassi di San Francisco, viveva con un giovane responsabile in una bella casa in un quartiere residenziale.

Era un avvocato. Di successo. Avrebbe potuto andar peggio. Avrebbe potuto essere in Alaska a lavorare in una fabbrica di scatolame. Avrebbe potuto essere morto.
Naturalmente sulle prime si era infuriata: aveva scaricato su di lui tutte le umiliazioni represse della propria giovinezza. In quel lontano pomeriggio di tanto tempo fa le era parso che il mondo in cui era cresciuta fosse infinitamente meno incerto, più rigido di quello da cui le stava parlando ora suo figlio, e tuttavia lei si era attaccata a quelle rigidezze, comprendendo che il loro motivo ultimo era quello di proteggere, di mantenere la stabilità delle cose, d'impedire che i quartieri di belle casette e ordinati negozi di droghiere esplodessero completamente. «Non credi che sia egoista da parte tua voler soddisfare tutti i capricci sessuali che hai?» gli aveva detto, ma intendeva qualcosa di lievemente diverso: intendeva chiedergli come facesse ad avere il coraggio di andare contro una corrente tanto forte come quella della convenzione semplicemente per soddisfare un desiderio, quando soddisfarlo significava capovolgere il mondo, significava capovolgere tutto. Sembrava folle, e anche terribilmente coraggioso. [...]
Quanto a Nat, rimase imperturbabile; accettò la notizia senza sforzo, sembrò non reagire nemmeno. Da bambino era stato talmente bistrattato - bistrattato perché era un secchione o era troppo intelligente o troppo strano - che gli mancava l'armatura di pregiudizi con la quale andavano in giro quasi tutti i mariti. In realtà sembrava che non gliene importasse un granché...
(David Leavitt - Eguali Amori)

sabato 17 marzo 2012

Non chiedere, non dire

Sono passati 6 mesi da quando è stata ufficialmente abolita dall'amministrazione Obama la regola del "Don't ask, don't tell". Riguardava la questione omossessuale all'interno dell'esercito. 
Barack Obama durante la firma per l'abolizione del DADT
Con questa regola, in vigore dal 1993 la sostanza detta in briciole era un po' questa: 
Creiamo un patto: i tuoi superiori dell'esercito si impegneranno a non chiederti nulla in merito alle tue preferenze sessuali ma in cambio il tuo impegno sarà quello di non esprimerle. Quindi se nel tuo letto soggiacciono gli ometti noi non lo vorremo sapere ma tu, mi raccomando, tientelo per te.


Ora, fosse capitato a me probabilmente la regola sarebbe anche andata bene: i miei fatti sono appunto fatti miei, e visto che vivo "nell'armadio" li tengo per me. Grazie per non intromettervi nella mia vita. Punto.
Ma se pensiamo a tutte quelle persone che ad esempio, a fronte di un rapporto che voleva essere vissuto alla luce del sole, dovevano continuamente nascondersi (che se è una scelta è un conto, se è un obbligo è ben diverso) immagino quanto fosse frustrante soggiacere a questa regola.
Mi chiedevo, ma non so nulla in merito, quale fosse la situazione invece nell'esercito italiano.

Per quelli della mia leva, quelli che ancora avevano il servizio militare obbligatorio, indipendentemente che prestassero servizio nell'esercito oppure no, durante la famosa Visita obbligatoria di Leva, o comunemente chiamata "I 3 giorni", si veniva sottoposti ad un test diagnostico, il famoso o famigerato MMPI.
Chi quella visita l'ha fatta ricorderà quelle 300 e passa domande che chiedevano se ci piacevano i fiori o se vedavamo persone che gli altri non vedevano.
Bene, quel test, che tra le altre cose serviva a rilevare la presenza dei disturbi della personalità, aveva tra le scale quella Mf, cioè che misurava la mascolinità o la femminilità delle persone.
In pratica: hai voglia a nascondere la tua voglia di cazzi in culo, tanto le alte istituzioni ti "schedavano" all'età di 18 anni.
Da quanto mi risulta, non sono a conoscenza di abusi o di incorrettezza nell'uso di questo test nell'esercito italiano, quindi credo abbiano sempre operato con rispetto e discrezione. Siamo un paese civile.
Ma oggi, qual è la situazione? Un nostro militare può dichiararsi senza alcun problema o, qualora si esponesse gli sarebbe preclusa la possibilità di servir la patria nell'esercito?

Comunque, tutti questi pensieri sono nati dal video amatoriale che vi sto per proporre: due giovani ragazzi, dei quali uno in abito militare che fanno l'amore e si filmano. Chissà se il militare è realmente iscritto nelle liste di leva, chissà se l'amatoriale è proprio vero, chissà se, la decisione di filmarsi e pubblicarsi sia nata anche da un sentimento di maggiore libertà ora che il Don't Ask D'ont Tell non è più in vigore.

Buona visione e mi raccomando: fate l'amore, non fate la guerra!

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